È un chip di pochi centimetri di grandezza, che si può tenere tra le dita della mano, ma al suo interno nasconde un modello tridimensionale e altamente fedele di un tumore delle vie biliari, il colangiocarcinoma, completo del suo microambiente tumorale. Questo modello 3D di tumore, specifico per singolo paziente – che si può cioè realizzare a partire da un campione di cellule prelevato dal paziente – è quello che in inglese viene chiamato “organ-on-chip”, una tecnologia possibile grazie all’incontro tra biomedicina, fisica e ingegneria.
L’innovativo prototipo è frutto della collaborazione tra Ana Lleo De Nalda, professoressa ordinaria di Humanitas University e responsabile del laboratorio di Immunopatologia Epatobiliare di Humanitas, e Marco Rasponi, professore associato di Tecnologie per la medicina rigenerativa al Politecnico di Milano, dove è anche responsabile del Laboratorio di Microfluidica e Microsistemi Biomimetici.
Lo studio è stato possibile grazie alla collaborazione con il gruppo del prof. Guido Torzilli, Direttore del Dipartimento di Chirurgia Generale e responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia Epatobiliare dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas.
«L’obiettivo ultimo di questo dispositivo non è solo accelerare la ricerca sul colangiocarcinoma, grazie a un sistema di laboratorio che riproduce al meglio ciò che osserviamo nei pazienti. È anche rendere le cure sempre più precise e mirate, poiché in futuro potrebbe permettere di valutare preventivamente l’efficacia delle terapie in ciascun paziente», affermano Ana Lleo e Marco Rasponi.
La ricerca è stata possibile grazie al sostegno di Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro e i risultati sono stati pubblicati sul Journal of Hepatology Reports.
Cos’è il colangiocarcinoma
Il colangiocarcinoma è un tumore raro del fegato che colpisce ogni anno circa 5.500 persone in Italia. Il cancro emerge da una trasformazione maligna dei colangiociti, le cellule che rivestono le vie biliari.
Purtroppo la diagnosi della malattia avviene spesso in fase avanzata, perché questo tipo di tumore dà pochi segni della sua presenza. Anche per questo motivo il trattamento è difficile: al momento della diagnosi solo il 10-30% dei pazienti hanno un tumore operabile chirurgicamente.
«Proprio per le ridotte opzioni terapeutiche e l’alta mortalità del colangiocarcinoma, abbiamo bisogno di nuovi modelli di laboratorio in grado di riprodurre le caratteristiche della malattia. Da questo punto di vista è particolarmente importante l’interazione tra le cellule del tumore e quelle del sistema immunitario, che svolgono un ruolo fondamentale nella progressione e nella risposta ai farmaci», spiega Ana Lleo.
Un microchip 3D per la ricerca e la medicina personalizzata
Grazie alla collaborazione tra Humanitas e Politecnico di Milano, oggi arriva una prima risposta dalla ricerca scientifica.
«Si tratta di un chip realizzato in un polimero delle dimensioni di pochi centimetri. All’interno di questo dispositivo, nei canali micrometrici scavati grazie ad avanzate tecniche fotolitografiche, abbiamo “seminato” le cellule prelevate da pazienti con colangiocarcinoma, lasciando che riproducessero l’architettura del tumore», spiega Marco Rasponi.
In una serie di esperimenti, il gruppo di ricercatori ha poi dimostrato le potenzialità del dispositivo nel ricapitolare il più fedelmente possibile quanto avviene nei pazienti a livello individuale, sia in termini di attivazione delle cellule T, che risulta associata all’infiltrazione del tumore, sia in termini di risposta terapeutica a diversi farmaci, che corrisponde alle caratteristiche della recidiva. «Siamo molto felici del risultato ottenuto, possibile solo grazie all’incontro di expertise e conoscenze diverse. I prossimi passi saranno arricchire ulteriormente il dispositivo, sia come modello per la ricerca sia come possibile test farmacologico personalizzato. Dobbiamo aggiungere, per esempio, alcuni tipi di cellule dell’immunità innata, come i macrofagi, che hanno un ruolo importante nella progressione del tumore, e introdurre delle micro-pompe in grado di riprodurre il flusso sanguigno all’interno dei vasi. Inoltre vogliamo testare il sistema in gruppi più ampi di pazienti, per confermare la sua capacità di ricapitolare i fenomeni che osserviamo in clinica», concludono Ana Lleo e Marco Rasponi.
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