La terapia del tumore della mammella fa un passo in avanti, soprattutto per quanto riguarda la prevenzione delle ricadute dopo l’asportazione della neoplasia primaria . Ad accendere le speranze delle malate e l’entusiasmo di parte della comunità scientifica sono i risultati di un grande studio, appena pubblicato sulla rivista New England Journal of Medicine, che ha preso in esame l’effetto dell’examestano, ultimo nato di una classe di farmaci chiamati inibitori delle aromatasi, e lo ha confrontato con la terapia standard, una cura a base di tamossifene della durata media di cinque anni. L’examestano, che presenta caratteristiche chimiche diverse dalle altre due molecole della stessa classe (letrozolo e anastrozolo) è stato dato a quasi 2.400 donne cui era stato asportato un tumore mammario e che avevano già assunto, per due o tre anni, il tamossifene. Il controllo era rappresentato da un numero analogo di malate che hanno continuato con il solo tamossifene. Dopo due anni e mezzo è stato possibile dimostrare la superiorità del nuovo farmaco: mentre infatti con esso si sono avuti 183 casi di ricadute o di decesso, con la terapia a base di tamossifene gli stessi sono stati 266. L’examestano si è anche dimostrato più sicuro del tamossifene per quanto riguarda il rischio di trombosi e quello di tumori dell’utero.
Gli inibitori delle aromatasi sono sotto esame da alcuni anni; il presupposto teorico della loro azione è il blocco della sintesi degli ormoni femminili, da cui dipende la maggior parte (circa i due terzi) dei tumori della mammella. Finora, però, mancavano studi conclusivi che dimostrassero la superiorità di questo approccio e, al tempo stesso, l’innocuità della terapia. La ricerca appena pubblicata sembra perciò rispondere ad alcuni degli interrogativi in campo. Ma non a tutti, come sottolinea il dottor Armando Santoro responsabile dell’Unità operativa di oncologia di Humanitas. “Si tratta senza dubbio di molecole molto importanti e destinate ad avere un ruolo ma, per il momento, la prudenza è d’obbligo. Mancano infatti dati che ci dicano che cosa succede dopo molti anni di blocco della produzione di ormoni, come ad esempio l’osteoporosi (visto che con il tamossifene si ha un significativo effetto antiosteoporosi), se aumenta o meno il rischio di una serie di tumori collegati all’equilibrio ormonale, se il sistema cardiocircolatorio è influenzato dalla cura e così via. La linea che prevale tra gli esperti è pertanto quella di un utilizzo accorto, in donne selezionate che siano comunque consapevoli dei molti punti di domanda esistenti e del fatto che è disponibile un’alternativa valida, il tamossifene”.
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