Il glioblastoma multiforme è un tumore del cervello molto aggressivo, pochissimi sono i casi di guarigione totale e la sua eradicazione è profondamente difficile. L’innovativo approccio delle nanotecnologie potrebbe rivelarsi fondamentale. La ricerca sulle nanoparticelle è iniziata a partire dagli anni ‘80-‘90. Oggi abbiamo diverse nanoparticelle approvate per la diagnosi e terapia di alcuni tumori e altre sono attualmente in fase finale di test clinici per il trattamento di alcuni tumori solidi.
Il glioblastoma e il problema delle recidive
Come ci spiega la professoressa Michela Matteoli, Responsabile del Programma di Neuroscienze di Humanitas, il problema principale del glioblastoma è che inevitabilmente recidiva dopo essere stato rimosso chirurgicamente e trattato con radio e chemioterapia. Poiché il tessuto che circonda il tumore è sede del 90% delle recidive, si ritiene che la causa delle recidive possa essere un’infiltrazione del tessuto sano da parte di cellule tumorali che “scappano” dalla massa tumorale e intaccano il tessuto sano del cervello, in associazione alla presenza nel tessuto sano di cellule tumorali non differenziate, da cui il tumore riesce a riformarsi.
Il trattamento con chemioterapia necessita alte dosi di farmaci che però bersagliano anche le cellule sane con pesanti effetti avversi. Il tutto è ulteriormente complicato dalla presenza della barriera ematoencefalica che protegge il cervello e impedisce l’ingresso di sostanze esterne. Se questa barriera è fondamentale per la salute e la protezione del cervello, d’altra parte crea un problema limitando l’ingresso di farmaci nell’organo.
Cosa fare allora? Il ruolo delle nanoparticelle
Le nanoparticelle possono essere funzionalizzate, ovvero chimicamente programmate a riconoscere le cellule tumorali e possono ospitare farmaci al loro interno: sono come piccoli proiettili che una volta inseriti nell’organismo cercano le molecole per le quali sono state messe a punto. Poiché possono riconoscere molecole esclusivamente presenti sulle cellule tumorali, i benefici di questo approccio sono due: il farmaco viene assorbito solo dalle cellule tumorali, preservando quelle sane, e la sua concentrazione è locale, mirata e più alta, quindi più efficace.
Questo meccanismo può essere applicato sia in fase di terapia per somministrare farmaci sia in fase di diagnosi precoce. Le nanoparticelle che riconoscono le cellule tumorali possono infatti essere caricate con traccianti che possono essere visualizzati grazie a tecniche di imaging e risonanza magnetica.
L’obiettivo del progetto
In collaborazione con un gruppo di chimici dell’Università di Bologna, sono state ideate e sintetizzate nanoparticelle polimeriche composte da copoly lactic acid/glycolic acidpolyethilen glycole (PLGA). Le nanoparticelle sono state funzionalizzate con un peptide (la clorotossina, estratto del veleno di scorpione) in grado di riconoscere le metalloproteasi, enzimi prodotti dalle cellule tumorali capaci di degradare la matrice extracellulare (una rete di proteine in cui le cellule sono immerse) facilitando la mobilità delle cellule stesse e quindi favorendo la formazione di metastasi.
Le nanoparticelle devono però arrivare fino al tumore e per riuscirci devono oltrepassare la barriera ematoencefalica. Nel caso del glioblastoma la barriera è più permeabile nella zona della massa tumorale e dunque le nanoparticelle riescono a oltrepassarla. Al contrario, le cellule isolate che permeano nel tessuto sano sono più difficili da scovare e attaccare, proprio perché la barriera che circonda il tessuto sano è inaccessibile e dunque le protegge.
La radioterapia associata alle nanoparticelle
Lo studio, condotto nel Neurocenter di Humanitas da Matteo Tamborini e Lorena Passoni, supportato dalla Fondazione Giancarla Vollaro e pubblicato l’8 Gennaio sulla prestigiosa rivista americana ACS nano, ha associato, in modelli preclinici, la somministrazione di nanoparticelle al trattamento con radioterapia, già prevista nel protocollo per trattare il glioblastoma. La radioterapia infatti aumenta la permeabilità della barriera ematoencefalica, anche con una sola dose di radiazioni, e questo potrebbe consentire alle nanoparticelle di arrivare anche alle cellule isolate.
Questi studi sono ancora a livello preclinico e il loro trasferimento alla clinica e ai pazienti non è previsto in tempi brevi.
“Per “vedere” dove le nanoparticelle si localizzano – spiega la professoressa – le abbiamo riempite con argento, che può essere visualizzato tramite microscopia, e abbiamo così scoperto che aumentando, grazie alle radiazioni, la permeabilità della barriera, le nanoparticelle penetrano sia nella massa tumorale sia nelle cellule isolate infiltrate nel parenchima, lasciando però integro e conservato il tessuto sano”.
“In aggiunta – continua la professoressa – abbiamo anche visto che le radiazioni non solo aumentano la permeabilità della barriera, ma intensificano l’espressione delle molecole bersaglio, riconosciute dalla clorotossina. Le nanoparticelle in questo modo individuano più facilmente il loro obiettivo”.
“I nostri risultati – spiega la prof.ssa Matteoli – hanno mostrato come l’associazione di nanoparticelle e radioterapia, nei modelli preclinici, abbia un effetto significativo sulla dimensione del tumore. Se questo si verifica con l’argento, che ha solo una moderata tossicità, ci aspettiamo che caricando le nanoparticelle con farmaci chemioterapici i risultati siano importanti”.
“Siamo molto soddisfatti di questi risultati che si inseriscono molto bene nelle tematiche di frontiera del Neurocenter di Humanitas.” -commenta la prof.ssa Matteoli – “La Neurochirurgia Oncologica di Humanitas è ampiamente riconosciuta a livello internazionale per il trattamento chirurgico del glioblastoma; l’attiva collaborazione tra la ricerca clinica e preclinica all’interno del Neurocenter – conclude – potrà portare al raggiungimento di ulteriori traguardi nell’ambito del trattamento di questo tumore cerebrale”.
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