Un’importante ricerca riaccende il dibattito sull’efficacia di questo strumento nella prevenzione del tumore alla prostata.
Uno studio durato ben 20 anni, finanziato dalla Swedish Cancer Foundation e pubblicato di recente sul British Journal of Medicine, ha coinvolto oltre 9000 uomini di nazionalità svedese ed ha evidenziato come lo screening effettuato con il dosaggio del PSA (Antigene Prostatico Specifico) non abbia affatto diminuito, nei soggetti monitorati, la mortalità dovuta alla malattia. Non è stata infatti riscontrata alcuna differenza statistica fra i soggetti che sono stati costantemente sottoposti a screening ed il campione di controllo.
L’utilità dello screening con il PSA nella prevenzione dei tumori alla prostata è argomento controverso ed i dati in proposito sono molto dibattuti, soprattutto dopo la pubblicazione, sul New England Journal of Medicine, del lavoro riguardante i risultati dell'”European randomized study of screening for prostate cancer”, avvenuta nel 2009 in concomitanza con il Congresso Europeo di Urologia (EAU). Ne abbiamo parlato con il prof. Pierpaolo Graziotti, vicepresidente di AURO (Associazione Urologi Italiani) e responsabile dell’unità operativa di Urologia di Humanitas.
Prof. Graziotti, alla luce di quanto è recentemente emerso, lo screening tramite PSA deve essere considerato utile?
“L’esperienza maturata dopo tanti anni di ricerche in tutto il mondo ha dimostrato che il PSA ha una bassa sensibilità: può risultare alterato, oltre che per la presenza di un tumore, anche per varie altre cause, specialmente nei soggetti più anziani. È provato che, nel 70% degli uomini che hanno valori di PSA fuori dalla norma, ciò non è riconducibile ad una diagnosi di cancro. È altrettanto noto che una certa percentuale di soggetti, al contrario, può sviluppare il tumore alla prostata pur in assenza di un incremento dei valori di PSA.
Purtroppo non esistono tecniche di imaging utili a formulare una diagnosi precoce, tanto che anche la sovrautilizzata ecografia transrettale non è suggerita, a tale scopo, da alcuna linea guida al mondo.
A causa della lenta progressione che in moltissimi casi caratterizza questa patologia, non è d’altra parte affatto scontato che i benefici di una diagnosi precoce e delle conseguenti terapie siano superiori agli inconvenienti che a queste possono conseguire.
Il rischio di quelle che gli autori anglosassoni definiscono “overdiagnosis” ed “overtreatment”, consistenti nella formulazione di diagnosi inutili alle quali conseguono terapie superflue, è tutt’altro che marginale e costituisce una seria problematica alla quale è necessario porre rimedio”.
Quindi come ci si comporta, in questi casi?
“Lo screening con il PSA, anche a parere dei suoi più autorevoli sostenitori, diventa inutile negli individui che abbiano superato i 74 anni (e la sua validità è ancora tutta da dimostrare anche nei soggetti più giovani), inoltre la lentezza di sviluppo tipica della malattia rende altamente improbabile che la vita di questi soggetti possa esserne minacciata.
In altre parole, sebbene sia il tumore più frequente nella popolazione maschile, la grande maggioranza degli uomini nei quali si sviluppa non muore a causa di esso. Considerati gli effetti collaterali connessi alle terapie, che possono incidere sulla qualità della vita (specialmente delle persone anziane), molto spesso intervenire può non portare alcun vantaggio; di conseguenza, è sempre molto importante che tutti i pazienti siano informati in maniera esaustiva delle alternative terapeutiche, compresa l’attenta sorveglianza della malattia, e che conoscano le conseguenze cui si va incontro scegliendo un percorso piuttosto che un altro”.
In quali casi, allora, lei sconsiglia questo test?
“Non c’è una formula assoluta per determinare per quali persone sia utile ricorrere a questo strumento. Possiamo però dire che è più facile che i vantaggi superino gli svantaggi negli individui più giovani o quando, per qualsiasi motivo, c’è un sospetto clinico che la patologia sia in atto. Certamente, sulla base delle attuali conoscenze, non è concepibile pensare ad una campagna di screening organizzato su tutta la popolazione; l’esame può avere invece ancora una notevole utilità se utilizzato in soggetti che hanno storie di tumori alla prostata fra i familiari diretti tanto da consigliarne un costante monitoraggio a partire dal quarantesimo anno di età.
Un discorso a parte merita il cosiddetto screening “opportunistico” quello cioè deciso dal medico, dopo averne condiviso l’opportunità con il paziente. Questi deve infatti essere messo al corrente che l’utilità di una diagnosi precoce, per tutte le ragioni citate in precedenza, non è dimostrata e che lo screening con PSA, nel caso il cui dosaggio risultasse elevato, potrebbe portare ad una serie di conseguenze che vanno dall’indurre ansia ingiustificata nel paziente e nei suoi familiari, ad accertamenti invasivi come ripetute biopsie.
Uno studio italiano, pubblicato sull’European Journal of Cancer Prevention, ha rivelato che, paradossalmente, la maggior parte degli uomini che oggi accetta di sottoporsi a questo test appartiene a fasce di età avanzata (70-79 o addirittura 80-89 anni), nelle quali la malattia rappresenta un pericolo reale solo in una minima percentuale dei casi.
In conclusione, a condizione che siano adottati principi più restrittivi, il test PSA è uno strumento certamente ancora valido che mi auguro possa essere presto affiancato da altre indagini che consentano di evitare tutte le enormi problematiche che possono conseguire ad un suo uso indiscriminato ed acritico”.
A cura di Matteo Nicolosi
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