La tecnologia può rendere più umane le persone, medici compresi. Sembra una contraddizione in termini, in realtà è la grande sfida delle tecnologie e dell’innovazione applicate al mondo dell’Health Care e della Medicina.
Ne ha parlato, tra le altre cose, il professor Maurizio Cecconi, responsabile di Anestesia e Terapia Intensiva in Humanitas e docente di Humanitas University, in occasione del Wired Health, la kermesse organizzata dalla rivista Condé Nast a Milano e di cui Humanitas è partner scientifico.
Photo credit: WiredItalia e WiredHealth2019
Realtà aumentata e big data: come la tecnologia avvicina medici e pazienti
Uno dei grandi vantaggi delle tecnologie, dei big data e in generale delle machine learning applicate (anche) alla terapia intensiva è senza dubbio la capacità di raccogliere, analizzare informazioni e sviluppare e identificare dei “trend predittivi” dello stato del paziente e della sua salute.
In questo modo il medico avrà sempre più la possibilità di “stare a contatto con il paziente, anziché interfacciarsi con macchine, dati e numeri”. “La tecnologia ancora oggi ci obbliga a passare tante ore davanti al computer, mentre vorremmo passarle con i malati – ha detto Cecconi – . Lo sviluppo del data science, in questo momento, ci consentirà di vivere in maniera più smart ed efficace il rapporto con le macchine, banalmente di dettare al computer e non passare ore a scrivere”.
Parallelamente, alcune nuove tecnologie come la realtà aumentata riescono ad avvicinare il paziente ricoverato in terapia intensiva anche ai famigliari a casa, gli permettono di conoscere il reparto in cui sono ricoverati e di proseguire nei follow up dopo le dimissioni.
“Tutta la tecnologia ‘tele-health’ e video non è ancora utilizzata molto nelle terapie intensive, ma diverse realtà nel mondo stanno iniziando a sperimentare ad esempio la realtà aumentata – ha spiegato il prof. Cecconi – con software in grado di ‘ri-portare’ virtualmente il malato, che spesso rimane in ospedale per molte settimane, tra le mura di casa sua o anche di scoprire il reparto in è ricoverato; spesso i nostri malati sono letteralmente bloccati a letto per molto tempo, magari si risvegliano dal coma disorientati e questo riesce a rasserenarli e renderli consapevoli”.
Infine, per gli intensivisti è importante poter mantenere un rapporto con i pazienti: “vorremmo rimanere in contatto con i malati anche quando sono stati dimessi dalla terapia intensiva”. In questa ottica si stanno testando degli ambulatori di follow up, anche grazie a video tecnologie.
Big data e machine learning: saper interrogare e interpretare i dati
Secondo un recente studio pubblicato negli Stati Uniti, le cure di terapia intensiva riguarderanno sempre più persone: si ipotizza che una su tre ne sarà coinvolta almeno una volta nella vita.
Se consideriamo che nelle consolle di reparto dai 15 ai 30 monitor registrano parametri vitali e informazioni dei pazienti, è semplice immaginare l’immensa mole di dati che si ricavano.
La sfida della medicina e degli specialisti è – e sarà sempre più – quella di interrogare e interpretare nel modo giusto i dati prodotti dalle macchine perché “il futuro non è spegnere il cervello e lasciar agire le macchine al nostro posto; buttare numeri e informazioni dentro ad un calcolatore e vedere semplicemente il risultato”, ha chiarito Cecconi.
Il “rischio è quello dell’overfitting”, di un adattamento eccessivo ai dati e a un modello campione.
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