La preeclampsia, un tempo nota anche come gestosi, è una condizione che può svilupparsi durante la gravidanza e che si caratterizza per ipertensione (aumento della pressione sanguigna), spesso accompagnata da proteinuria (maggiori livelli di proteine nelle urine).
La preeclampsia in genere si risolve spontaneamente dopo qualche settimana dal parto, purché sia gestita in modo corretto durante la gravidanza. Tuttavia secondo recenti ricerche potrebbe avere un impatto a lungo termine sul sistema cardiovascolare materno, con aumentato rischio di malattie coronariche, insufficienza cardiaca e ictus.
Una review sistematica delle evidenze finora a disposizione è stata di recente pubblicata sull’European Heart Journal grazie alla collaborazione tra Nicoletta Di Simone – professore ordinario di Ginecologia e Ostetricia presso Humanitas University, responsabile del Centro Multidisciplinare di Patologia della Gravidanza di Humanitas San Pio X e direttrice della Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia di Humanitas University – e Giulio Stefanini – referente per la ricerca clinica del Cardio Center dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas Rozzano e professore associato di Cardiologia in Humanitas University.
Dall’analisi (che include 22 studi condotti negli ultimi vent’anni, per un totale di oltre 13 milioni di donne monitorate) emerge come le donne che hanno sofferto di preeclampsia debbano fare prevenzione e monitoraggio cardiovascolare per tutta la vita.
Preeclampsia: i sintomi e quali sono le cause
L’incidenza della preeclampsia in gravidanza è compresa tra il 3 e il 5% e si sviluppa generalmente dopo la ventesima settimana di gestazione.
Si manifesta con sintomi quali:
- ipertensione
- proteinuria
- dolore a barra epigastrico o dolore addominale
- alterazioni della funzionalità epatica o renale
- segni neurologici: cefalea, difficoltà alla visione
- alterazioni ematologiche: emolisi o riduzione delle piastrine
- iposviluppo fetale
“La causa della condizione non è del tutto chiara, sicuramente sono spesso coinvolti un insufficiente sviluppo placentare e dei vasi sanguigni che alimentano la placenta. Alcuni fattori di rischio includono una storia familiare di preeclampsia, una storia ostetrica di precedente preeclampsia, la presenza di ipertensione cronica, l’obesità, il diabete pregravidico, la sindrome di anticorpi anti fosfolipidi, il ricorso a tecniche di fecondazione in vitro”, spiega la professoressa Nicoletta Di Simone.
La malattia può avere esordio improvviso o rimanere parzialmente silente fino a una rapida evoluzione verso l’eclampsia. “Se non viene trattata correttamente, può portare a complicazioni anche gravi, sia per la futura mamma che per il bambino. La ricerca ci dice però che tale condizione, anche quando affrontata a dovere, lascia traccia del suo passaggio: il rischio di incorrere in malattie cardiovascolari anche a distanza di molti anni è il doppio rispetto alle donne che non ne sono colpite”.
Le nuove evidenze sul rapporto tra preeclampsia e rischio cardiovascolare
Come riassunto dalla recente review sistematica pubblicata sull’European Heart Journal, il rischio è doppio, in particolare, per morte cardiovascolare, malattie coronariche, insufficienza cardiaca e ictus. L’aumento di rischio si rivela a partire da 1 a 3 anni dopo il parto e resta invariato per i successivi 39 anni di follow-up finora osservati, arrivando quindi fino all’età avanzata.
L’analisi sottolinea l’urgenza di una gestione multidisciplinare attenta e continuativa della salute cardiaca nelle donne che hanno sperimentato la preeclampsia.
“Questi dati suggeriscono la necessità di un cambiamento nel modo in cui la comunità medica affronta la preeclampsia: non più come un disturbo confinato alla gravidanza, ma come un campanello d’allarme per la salute futura della donna. L’attenzione dovrebbe quindi concentrarsi sulla prevenzione e sul monitoraggio a lungo termine,” spiega il professor Giulio Stefanini. “L’analisi degli studi ci permette anche di dire che curare la condizione in modo tempestivo riduce l’impatto a lungo termine e quindi riduce il rischio. Un motivo di attenzione in più verso eventuali sintomi che segnalino la sua presenza”.
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