Una famiglia di medici e musicisti. Per il giovane Alberto Peracchia, non è stato difficile scegliere quale mestiere fare da grande: da una parte la tradizione degli uomini di famiglia negli studi di medicina, dall’altra la professione della madre nella musica. Ora il giovane Alberto è il professor Peracchia, chirurgo di fama mondiale, senior consultant nell’ambito della Chirurgia Mininvasiva in Humanitas. Dai suoi occhi traspare un amore e una passione per la medicina che non ha confini e che non guarda neppure in faccia all’anagrafe: benché abbia compiuto settantre primavere, dal suo volto emerge una passione giovane, la stessa che si può leggere sul viso di una matricola universitaria.
È stato difficile scegliere?
“Forse la mia non è stata neppure una scelta, perché la domenica era consuetudine radunarci per le tipiche riunioni di famiglia. Quelle riunioni diventavano dei mini congressi di medicina, non si parlava d’altro. È invece stata determinate la scelta della chirurgia: mio padre era dermatologo, uno dei miei zii internista, un altro chirurgo. E sono stati gli episodi della Seconda Guerra Mondiale che vidi a Merano, dove mio zio operava in qualità di primario chirurgo, che mi fecero scegliere quella strada. Merano, allora era la prima frontiera dove arrivavano i nostri militari dalla Russia, spesso con arti congelati. La medicina non aveva fatto i passi di oggi e si risolveva con la chirurgia. È stata una scelta emozionale”.
Benché la sua non sia stata proprio una scelta, traspare una grande gioia. Da dove arriva?
“È vero, ho visto molte persone obbligate a fare degli studi di tradizione senza entusiasmo, senza la voglia di conoscere il futuro. Io, invece, cominciai gli studi universitari alla fine degli anni Quaranta e grazie ai consigli di famiglia vidi il mondo della medicina al di fuori dell’Italia. Andai a Parigi nel ’52 e mi appassionai all’ultima branca della chirurgia, quella cardiaca. Conobbi Dubost, giovane cardiochirurgo che fu poi tra i primi a fare il trapianto di cuore. Quando mi laureai, la passione per la cardiochirurgia mi portò per tre anni in Francia come assistente proprio nella clinica di Dubost”.
Ma poi tornò in Italia. Come mai?
“Per due motivi: per condizioni familiari e universitarie. Conobbi quella che sarebbe divenuta mia moglie e il prof. Pezzuoli mi chiese di seguirlo nella carriera universitaria. Con lui andai a Cagliari, Modena e dopo cinque anni approdai a Padova. A Modena, insieme al prof. Prati sviluppammo un centro di cardiochirurgia, ma nel ’67 Pezzuoli venne chiamato a Padova. Per me fu uno svantaggio e un vantaggio allo stesso tempo: a Padova c’era già un centro per la cardiochirurgia, ma vinsi il concorso per diventare professore ordinario all’Università. Il prof. Cevese mi consigliò di occuparmi della chirurgia e delle patologie dell’esofago, che allora erano poco conosciute. Agli inizi degli anni Settanta, insieme a cinque assistenti, avviai la nuova scuola di chirurgia”.
Ha avuto molte soddisfazioni da questa nuova scuola?
“Sì: abbiamo avuto più di diecimila pazienti affetti da cancro all’esofago e se i primi dopo l’intervento non sopravvivevano dopo il primo anno, oggi, invece, lo fanno con un’ottima qualità di vita, perché si è alzata, e di molto, la percentuale di guarigione dopo l’intervento chirurgico”.
Può spiegarci come è stato possibile?
“Grazie anche agli studi associati tra chirurgia e terapie chemio-radioterapiche; alla fine degli anni Settanta il dottor Nakayama a Tokio sviluppò la radioterapia insieme alla chirurgia; nel 1980 a Padova il dottor Kelsen di New York venne a parlarci della chemioterapia in associazione alla chirurgia e per la prima volta fu utilizzato il cis platino contro il cancro all’esofago”.
Quale potrebbe essere la prossima tappa della chirurgia?
“È quella mininvasiva o endoscopica, che nacque in Francia alla fine degli anni Ottanta. Il futuro sarà la chirurgia mininvasiva, poiché con piccoli tagli potrà essere asportato il cancro all’esofago soprattutto nelle fasi iniziali senza dover tagliare e procurare vistose cicatrici”.
Nella sua lunga carriera è stato anche docente universitario: sono cambiati i giovani che si apprestano a studiare medicina rispetto ai suoi tempi?
“No. Direi che non sono i giovani ad essere cambiati. Sono cambiate le condizioni: ai miei tempi eravamo molti meno e c’erano più mezzi per la ricerca, oggi è il contrario. Io ho avuto la fortuna di essere attorniato da allievi meravigliosi, sia Padova che a Milano e Pisa, dotati di grandissimo entusiasmo. E anche qui in Humanitas nel laboratorio di chirurgia virtuale ho trovato la stessa voglia di imparare”.
Professore, la sua vita è stata dedicata interamente alla chirurgia, ma ha mai trovato tempo per coltivare altre passioni?
“Certo, sono riuscito in molti sport. Con Leo Gasperl, un altro dei miei maestri, a Ortisei nel 1943 mi sono perfezionato nello sci, uno sport che ho sempre praticato e che amo molto. Quest’anno, infatti, sono riuscito a mettere gli sci a mia nipote che ha due anni e mezzo. Ho praticato il tennis, pratico il golf, sport meraviglioso che consente splendide camminate in posti ameni. Mi porto sempre tre mazze, quando mi trovo a spasso per il mondo per congressi e seminari. Una volta, alle Hawai, vidi togliere da un furgone ben quattordici sacche da golf. Mi dissero che erano di un unico giocatore: era Greg Norman, lo ‘squalo bianco’. Mi presentai e facemmo un giro. Naturalmente io non giocavo, mi limitavo a guardare: fu un’emozione unica”.
A cura di Raffaele Sala
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