L’osteoporosi è una patologia che comporta un’alterazione della struttura ossea con una diminuzione della resistenza al carico e un aumento del rischio di incorrere in fratture. Si tratta di una malattia cronica che interessa 1 donna su 3 oltre i 50 anni e 1 uomo su 8 oltre i 60. Tra i pazienti affetti da osteoporosi, però, solo circa il 50% accede alle cure.
Perché è importante non trascurare questa patologia e a quali sono i fattori di rischio a cui prestare attenzione?
Ne parliamo con il professor Gherardo Mazziotti, Responsabile dell’Unità Malattie Osteometaboliche in Humanitas e docente di Humanitas University.
Osteoporosi: come si manifesta?
“L’osteoporosi è una malattia silente, che si manifesta solo all’incorrere della frattura. Tuttavia, attraverso determinati elementi clinico-anamnestici, è possibile diagnosticare l’osteoporosi precocemente. I segnali a cui prestare attenzione sono la familiarità per frattura di femore o frattura di vertebre (i cosiddetti ‘crolli vertebrali’), determinate patologie croniche che possono compromettere la qualità dell’osso, e alcune terapie con farmaci che potrebbero alterare la struttura ossea, come i glucocorticoidi, gli immunosoppressori e le terapie ormonali per carcinoma alla mammella e carcinoma alla prostata. Ecco, questi pochi ma importanti elementi anamnestici aiutano lo specialista a identificare i soggetti più a rischio e dunque diagnosticare l’osteoporosi prima dell’evento fratturativo”, spiega il professor Mazziotti.
Curare l’osteoporosi: le terapie e l’importanza di un team multidisciplinare
“Già da molti anni abbiamo a disposizione numerosi farmaci per il trattamento dell’osteoporosi. Sono farmaci che agiscono andando a regolarizzare quel processo di rimodellamento scheletrico che nel paziente affetto da osteoporosi risulta essere sbilanciato con predominanza del riassorbimento osseo rispetto alla neoformazione ossea.
La maggior parte dei farmaci che utilizziamo sono ad azione anti riassorbitiva, poi ci sono i farmaci anabolici, che vanno a stimolare la neoformazione ossea. I farmaci anti-osteoporotici sono molto efficaci sia per la prevenzione primaria, dunque in quei soggetti che sono affetti da osteoporosi ma ancora non hanno subito fratture da fragilità, sia in quei pazienti con un’osteoporosi già complicata da fratture, per prevenire il secondo o il terzo evento fratturativo. Purtroppo però, nonostante l’efficacia comprovata di questi farmaci, circa il 50% dei pazienti ad alto rischio fratturativo non accede alle terapie per l’osteoporosi”, approfondisce il professore.
“Il paziente affetto da osteoporosi deve seguire uno stile di vita corretto, che significa mantenere una dieta priva di alcol, abolire il fumo di sigaretta e praticare attività fisica con costanza. Ma quando l’osteoporosi è avanzata e si è complicata con multiple fratture da fragilità, l’utilizzo dei farmaci anti-osteoporotici e il corretto stile di vita devono essere necessariamente integrati in un percorso diagnostico-terapeutico multidisciplinare che preveda il coinvolgimento del Fisiatra, Ortopedico, Neurochirurgo della colonna vertebrale e il Terapista del Dolore, in grado di prendersi cura del paziente con complicanze croniche degli eventi fratturativi”.
Deficit di calcio e vitamina D: quali correlazioni con l’osteoporosi?
“Nell’accezione comune, le carenze di vitamina D e di calcio sono associate all’osteoporosi, ma non è esattamente così. La vitamina D, infatti, ha un ruolo importante nel favorire l’assorbimento intestinale del calcio e, dunque, indirettamente nel favorire la mineralizzazione ossea. Ma l’osteoporosi non è solo una condizione di difetto di mineralizzazione ossea: comporta anche un’alterazione del rimodellamento scheletrico, che porta a una compromissione della microarchitettura ossea. Quindi, in questi casi, oltre a garantire un’adeguata mineralizzazione attraverso la somministrazione di vitamina D, quando il paziente è carente di calcio e la dieta non lo esaurisce in maniera sufficiente, è necessario utilizzare i farmaci antiosteoporotici che non possono essere sostituiti dalla sola vitamina D, seppure in combinazione col calcio”, continua lo specialista.
Vitamina D e COVID-19, un nuovo studio Humanitas
“La vitamina D è un ormone dagli effetti pleiotropici, ossia in grado di interagire su vari distretti e tra questi anche sul sistema immunitario. La vitamina D, infatti, ha un’azione di immunomodulazione, basti pensare ai trattamenti per la tubercolosi di inizio Novecento, che prevedevano la degenza in luoghi soleggiati come terapia adiuvante di un’infezione. Oggi sappiamo che quell’effetto adiuvante è garantito dalla vitamina D, ma non dobbiamo per questo considerarla come un trattamento di prevenzione generale dell’infezione da COVID-19”, sottolinea il professore approfondendo i legami tra carenza di vitamina D e aggressività del virus SARS-CoV-2.
“In Humanitas abbiamo dato avvio a un progetto di studio nato dall’esperienza quotidiana della task force Humanitas COVID-19 guidata dal dottor Salvatore Badalamenti, dal dottor Michele Ciccarelli e dal dottor Antonio Voza, che ha visto anche gli endocrinologi in prima linea. Dalla gestione quotidiana del paziente con COVID-19, infatti, ci siamo resi conto che la malattia andava a influenzare il metabolismo del calcio.
Le nostre osservazioni cliniche hanno confermato che i soggetti ospedalizzati per COVID-19 hanno livelli molto bassi di vitamina D, come già riscontrato da numerosi altri studi, ma abbiamo anche osservato che i soggetti con livelli più bassi di vitamina D sviluppavano una malattia polmonare più severa, con una maggiore compromissione respiratoria e necessità di ventilazione, sia non invasiva, sia meccanica. Interessante è stata l’osservazione che la maggiore severità della polmonite da COVID-19 si aveva in quei pazienti nei quali i bassi valori di vitamina D si associavano a elevati valori di paratormone, un ormone che fisiologicamente regola l’esaurimento di calcio ma che potrebbe avere anche molteplici effetti sul sistema immunitario e sulla risposta alle infezioni. Dunque, come abbiamo riscontrato, a condizionare il decorso clinico della malattia non è soltanto la diminuzione di vitamina D, ma anche l’aumento del paratormone”, conclude il professor Mazziotti.
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