Tra le fratture più complesse in cui si può incorrere figura sicuramente quella del piatto tibiale, ossia della parte superiore della tibia, che, con femore e rotula, forma l’articolazione del ginocchio.
La frattura del piatto tibiale viene provocata soprattutto da cadute e movimenti legati a determinati sport, come lo sci e il motociclismo, oppure in seguito ad incidenti ad alta energia. A seconda della gravità della frattura, può essere associata una compromissione dei tessuti molli, che rende più complessa la gestione chirurgica e più severa la prognosi.
Indicativamente, una frattura del piatto tibiale guarisce in circa tre mesi, durante i quali il paziente dovrà limitare il carico in base al trattamento eseguito (conservativo solo nelle fratture composte e stabili, altrimenti quasi sempre chirurgico).
Approfondiamo l’argomento con il dottor Lorenzo Di Mento, responsabile dell’Unità Operativa di Traumatologia in Humanitas.
Frattura del piatto tibiale: i fattori di rischio
Il fattore di rischio principale per la frattura del piatto tibiale è la pratica sportiva. Si tratta infatti di una tipologia di frattura spesso conseguente a traumi del ginocchio tipici dello sci alpino, dell’equitazione o della bicicletta, ma comune anche alla mobilità cittadina su due ruote (per esempio il motorino).
Il sintomo caratteristico di tale frattura è rappresentato da un forte dolore all’articolazione del ginocchio, che si gonfia sensibilmente. Il paziente sarà inoltre impossibilitato a caricare il peso sulla gamba infortunata.
Quando la lesione coinvolge anche le strutture capsulo-legamentose, il trauma è più complesso da trattare, ed il recupero funzionale a distanza più lungo. Molto comune è, per esempio, la lesione dei legamenti collaterali, meno quella del legamento crociato anteriore. Negli ultimi anni la tendenza è quella di trattare simultaneamente tutte le lesioni, sia ossee sia capsulo-legamentose, per cui possono essere richieste competenze ultra-specialistiche.
Frattura del piatto tibiale: a cosa serve l’intervento chirurgico?
Per valutare la frattura del piatto tibiale, il paziente verrà sottoposto a una serie di test strumentali, tra cui la radiografia del ginocchio, la TAC con ricostruzioni 3D e in alcuni casi la risonanza magnetica. Trattandosi di frattura articolare, la priorità assoluta è rappresentata dal ricostruire in modo meticoloso il piano cartilagineo. La scelta se ricorrere ad una tecnica percutanea/mini-invasiva con ausilio di artroscopia, oppure ad una tecnica aperta classica con visualizzazione diretta del piatto tibiale, è subordinata al tipo di frattura. La frattura deve comunque essere ridotta in modo anatomico, ricercando una sintesi stabile, così da mobilizzare subito l’articolazione e concedere un immediato carico protetto al paziente.
Dopo la chirurgia: la riabilitazione fisioterapica
Una volta superato il periodo di convalescenza il paziente comincerà gradualmente ad aumentare il carico sul ginocchio fratturato, partendo da 20kg circa, ossia il peso dell’arto, e andando a crescere in base alle indicazioni dello specialista, che dipenderanno dagli esami di follow-up e dalle condizioni del paziente.
All’intervento segue quindi un periodo di riabilitazione fisioterapica da effettuarsi tramite esercizi in palestra e al domicilio, nonché mediante ginnastica in acqua. Nelle prime fasi è raccomandato l’utilizzo di uno strumento per la mobilizzazione passiva continua del ginocchio (Kinetec) che consente un recupero controllato del range articolare del ginocchio. In caso il paziente pratichi attività sportiva, potrà riprenderla a 4-6 mesi dall’intervento chirurgico.
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