Dall’Università di Napoli all’Istituto Clinico Humanitas, nell’équipe del dottor Armando Santoro, responsabile del Dipartimento di Onco-Ematologia. Il dottor Giovanni Abbadessa, 29 anni, ha maturato la propria esperienza in Italia e negli Stati Uniti, in particolare presso il Temple University-Fox Chase Cancer Center di Philadelphia, dove ha trascorso sei mesi nel 2005 e dove ora è tornato. Sulla strada della ricerca, seguendo gli studi sull’efficacia dell’RB2 (un gene oncosoppressore) nell’epatocarcinoma. “E pensare – dice – che volevo specializzarmi in cardiologia”.
Dottor Abbadessa, perché ha deciso di integrare i suoi studi con questa esperienza a Philadelphia?
“Sono partito con l’intenzione di partecipare a progetti sperimentali in campo oncologico da riportare in Humanitas, e di creare una collaborazione costante tra il Fox Chase e il reparto del dottor Santoro. I progetti che ho iniziato a Philadelphia li ho portati avanti in Humanitas proprio sotto la sua guida”.
Qualcuno in particolare?
“Attualmente mi sto interessando all’RB2, un gene oncosoppressore che controlla la riproduzione delle cellule tumorali e blocca la malattia. Gli esperimenti fatti fino ad ora su campioni di tumori polmonari prelevati da pazienti hanno dato buon esito.
Ho seguito anche studi sperimentali sull’epatocarcinoma, che collegano l’assenza di RB2 allo sviluppo di questa patologia, per la quale stiamo studiando una nuova terapia genica. Consiste nel valutare la correlazione tra l’azione di un pattern di geni, tra cui l’RB2, e la formazione del tumore. I geni che abbiamo associato all’RB2 non sono mai stati combinati: singolarmente hanno dimostrato una certa efficacia e quindi, insieme, potrebbero dare risultati maggiori, perché vanno a colpire la malattia contemporaneamente su più fronti. L’idea di utilizzarli in combinazione è nata da quello che già si fa con la chemioterapia, associando diversi farmaci”.
Ha lavorato sia negli USA sia in Italia. Differenze e somiglianze?
“In campo oncologico credo che alcuni ospedali italiani non abbiano nulla da invidiare a quelli statunitensi. L’approccio alla malattia da noi è più completo e multidisciplinare. Anche se negli Stati Uniti il medico ha meno carico di lavoro e meno responsabilità gestionali e ha più tempo da dedicare al paziente o alla ricerca. Inoltre la formazione là è molto buona, gli studenti di Medicina sono più seguiti che da noi”.
E com’è la vita a Philadelphia?
“In città ci sono sei università, si trovano studenti di tutto il mondo, giovani medici che provengono da Europa, Canada, Sud America. La sera nei ristoranti e nei bar si possono incontrare allo stesso tavolo gli studenti stranieri e i grandi scienziati. Le serate sono molto stimolanti e anche il cibo tutto sommato non è male: non ci sono solo hamburger, ma ristoranti che offrono cibo di ogni tipo. Anche quelli italiani sono buoni. Certo, per avere un vero piatto di spaghetti cucino io”.
Ha incontrato altri ricercatori italiani?
“Ne ho incontrati molti. Sono tutti entusiasti di poter fare esperienza all’estero, ma hanno un sentimento comune: il desiderio di tornare a casa. Durante la permanenza all’estero invece la necessità è quella di comunicare con gli altri ricercatori italiani che soggiornano nella stessa città, per scambiarsi informazioni, consigli, considerazioni. Insieme ad alcuni di loro ho fondato un’associazione, Urania, con lo scopo di creare un network (cui prevediamo che parteciperanno a breve circa 1.500 persone) che metta in contatto i ricercatori rimasti in Italia con quelli negli Stati Uniti, questi ultimi tra di loro e con i vari istituti di ricerca. È un modo utile per farsi conoscere e magari essere chiamati a partecipare a un progetto. Oltre che un modo per ribadire il legame affettivo con l’Italia. Abbiamo anche un sito Internet, collegato a quello dell’Ambasciata italiana a Washington”.
Di Cristina Bassi
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