Si chiama vitamina D, ma non possiamo considerarla una vitamina in senso stretto. Il termine vitamina, infatti, identifica delle sostanze organiche indispensabili per la vita che devono necessariamente essere introdotte con la dieta poiché l’organismo non è in grado di sintetizzarle. La vitamina D, invece, viene principalmente sintetizzata tramite l’esposizione ai raggi del sole e in condizioni normali non è necessario assumerne anche attraverso l’alimentazione per raggiungere una concentrazione adeguata.
Ne parliamo con il professor Andrea Lania, Responsabile dell’Unità Operativa di Endocrinologia, Andrologia medica e Diabetologia di Humanitas e docente di Humanitas University.
La vitamina D è più correttamente un pre-ormone, che ha il compito principale di regolare il metabolismo del calcio e del fosforo. L’apporto alimentare garantisce solo il 10-15% del fabbisogno di vitamina D, mentre la maggior parte è sintetizzata dall’organismo tramite sintesi cutanea. La vitamina D si trova in due forme: vitamina D2, o ergocalciferolo, di origine vegetale, e vitamina D3, o colecalciferolo, che deriva dal colesterolo ed è prodotta direttamente dall’organismo. Trattandosi di un pre-ormone, la vitamina D deve essere attivata tramite due idrossilazioni, quindi tramite due reazioni enzimatiche: la prima avviene a livello del fegato, la seconda a livello renale.
A cosa serve la vitamina D
La vitamina D è una componente fondamentale della regolazione del metabolismo del calcio e del fosforo: ne favorisce l’assorbimento a livello intestinale e ne riduce l’escrezione con le urine.
Agisce anche direttamente sullo scheletro, promuovendone la crescita fisiologica e aiutandone il continuo rimodellamento, fondamentale per garantire le proprietà strutturali, l’elasticità e la forza dell’osso.
È importante che vi sia un’adeguata concentrazione di calcio nel sangue, poiché una carenza cronica può comportare un difetto di mineralizzazione ossea che porta allo sviluppo di rachitismo nel bambino e osteomalacia nell’adulto. Il rachitismo è una condizione particolarmente grave poiché riguarda ossa in via di sviluppo che non hanno ancora raggiunto il picco di massa e comporta una crescita ridotta associata a un quadro di deformità scheletriche specifiche, in particolare a livello degli arti. L’osteomalacia, invece, colpisce un osso già maturo e dunque comporta principalmente l’indebolimento dello scheletro, che diviene più fragile e suscettibile alle fratture. Sebbene si tratti di patologie ancora frequenti in molti paesi in via di sviluppo, nei paesi industrializzati sono fortunatamente condizioni sempre più rare, che nella maggior parte dei casi si presentano in una forma lieve e solo eccezionalmente comportano deformità ossee.
Negli ultimi anni, inoltre, diversi studi hanno evidenziato come la vitamina D, oltre a svolgere un ruolo fondamentale nel mantenimento della salute scheletrica, sia implicata in un grande numero di funzioni fisiologiche extra-scheletriche.
La scoperta della presenza dei recettori della vitamina D a livello di molte cellule e tessuti dell’organismo ha portato, infatti, a ipotizzarne possibili funzioni pleiotropiche, ovvero a livello del sistema nervoso centrale, cardiovascolare, immunitario, così come sul differenziamento e sulla crescita cellulare.
Alcune linee di Ricerca avevano suggerito una possibile associazione tra omeostasi della vitamina D e malattie infettive, metaboliche, tumorali, cardiovascolari e immunologiche. Nonostante però la grande mole di studi prodotta è importante sottolineare che ad oggi non sono ancora disponibili dati conclusivi sul ruolo protettivo della vitamina D e non esistono pertanto basi solide e incontrovertibili per raccomandare il suo impiego in questi ambiti.
Carenza vitamina D, cosa fare?
Purtroppo, in caso di carenza, non c’è sintomatologia manifesta; dunque, la diagnosi avviene principalmente tramite esami del sangue. Normalmente, i valori adeguati di vitamina D sono compresi tra i 30 e i 100 ng/ml: si considera quindi insufficienza un valore tra 20 e 30, carenza un valore al di sotto di 20 e grave carenza per valori inferiori a 10.
All’opposto, se si supera la soglia dei 100 ng/ml si verifica un eccesso di vitamina D, che può comportare anche intossicazione. Si tratta tuttavia di una condizione molto rara, che non può in alcun modo verificarsi in seguito a un’esposizione costante ai raggi solari, mentre può essere provocata da un utilizzo scorretto degli integratori.
Per questo motivo, chi presenta una carenza di vitamina D deve seguire le indicazioni dello specialista o del medico di medicina generale ed evitare di assumere integratori autonomamente.
Di norma si preferisce che il paziente segua delle somministrazioni giornaliere, settimanali o mensili di vitamina D che, in condizioni normali, viene assunta per via orale. La forma che si predilige è quella inattiva, dunque il colecalciferolo, la medesima che viene sintetizzata dal nostro organismo tramite l’esposizione solare. Solo in condizioni particolari, quali il malassorbimento, si preferisce la somministrazione intramuscolo. È importante considerare che dobbiamo attendere almeno 3-4 mesi prima che l’esito di una supplementazione di vitamina D sia confermato dagli esami del sangue.
Come assumere la vitamina D
Alle nostre latitudini, per mantenere un livello adeguato di vitamina D, da marzo a novembre è sufficiente un’esposizione alla luce del sole di circa il 25% della superficie corporea, per almeno 15 minuti 2-3 volte alla settimana. Nei restanti mesi, invece, l’intensità dei raggi solari è insufficiente a convertire il precursore in vitamina D e per questo motivo l’esposizione solare può non bastare.
In questo periodo determinate categorie dovrebbero controllare il proprio livello di vitamina D e valutare con il medico l’eventualità di assumere integratori. In più, anche se la loro assunzione non è risolutiva, si può anche fare ricorso a fonti dietetiche ricche di vitamina D, tra cui figurano pesci grassi come il salmone, il tonno o lo sgombro, il tuorlo d’uovo, la crusca e l’olio di fegato di merluzzo.
Carenza vitamina D: chi è più a rischio?
Le categorie più a rischio di carenze sono gli anziani (in cui la capacità di sintesi cutanea è ridotta), gli individui istituzionalizzati o con inadeguata esposizione al sole, le persone con la pelle scura (che, quindi, hanno più pigmento cutaneo che riduce l’assorbimento di raggi ultravioletti), le donne in gravidanza o allattamento, le persone che soffrono di obesità e quelle che hanno patologie dermatologiche estese, come:
- vitiligine
- psoriasi
- dermatite atopica
- ustioni
Sono a rischio anche i pazienti con malattie intestinali che causano malassorbimento, quelli che soffrono di osteoporosi o osteopenia, quelli con patologie renali ed epatiche e quelli che assumono farmaci che interferiscono con il metabolismo della vitamina D, come le terapie cortisoniche croniche o anticomiziali. Queste categorie di pazienti dovrebbero controllare periodicamente il proprio livello di vitamina D e, in caso di carenza, concordare un percorso di integrazione.
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