Il 21 settembre 2016 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha dedicato una sessione al problema della resistenza agli antibiotici, richiamando i governanti di tutte le nazioni ad affrontare questa vera e propria emergenza.
L’Assemblea ha chiesto politiche sanitarie specifiche per risolvere questa grave minaccia, esortando a investire nella ricerca sugli antibiotici del futuro.
Ne ha parlato il dottor Alberto Mantovani, Direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas e docente di Humanitas University, ospite della trasmissione Aspettando Geo di Rai 3.
Professore, perché la resistenza agli antibiotici è una delle minacce più pericolose per la salute pubblica?
Si stima che le morti legate a resistenza da antibiotici siano 700.000 su scala globale, circa 30.000 nella sola Europa.
La minaccia è quindi attuale ma si proietta anche nel futuro. Secondo uno studio scientifico, commissionato dal governo inglese, si ipotizzano dieci milioni di morti all’anno da qui al 2050, a causa di questa resistenza.
Quali sono le malattie che rischiano di diventare incurabili?
Alcune patologie, come polmoniti o infezioni alle vie urinarie, sono causate da particolari ceppi batterici che sono in grado di distruggere gli antibiotici, provocando sepsi, cioè un’infezione generalizzata dell’organismo. Queste sepsi non possono essere combattute dagli attuali antibiotici e conducono quindi, nella maggior parte dei casi, a un esito mortale.
Che cosa si può fare, a livello nazionale e mondiale, per contrastare questi batteri antibiotico-resistenti?
I governi dei singoli Paesi devono promuovere la ricerca per individuare nuovi antibiotici e per capire i meccanismi per cui il nostro organismo, in alcuni casi, riesce a debellare o tenere sotto controllo i ceppi antibiotico-resistenti, mentre in altri casi deve soccombere ai loro attacchi.
Occorre comprendere questo meccanismo per sviluppare nuove e fondamentali armi immunologiche.
È poi fondamentale usare gli antibiotici con saggezza. Questo vale sia per i medici, sia per il personale medico, sia per i pazienti. Assumere gli antibiotici per curare banali sindromi influenzali o per un semplice raffreddore significa favorire l’insorgenza di ceppi resistenti.
Abbiamo poi un problema di uso indiscriminato degli antibiotici in zootecnia, dove registriamo molti ceppi antibiotico-resistenti.
Quando usiamo gli antibiotici in modo scorretto, perché abbiamo la febbre un po’ alta da un paio di giorni, per esempio, facciamo del male a noi stessi perché danneggiamo i microbi che aiutano il nostro sistema immunitario.
Così facendo, danneggiamo anche i soggetti più deboli, come i pazienti che hanno subìto un trapianto di midollo.
Che ruolo hanno i vaccini in questa fase storica della salute globale?
I vaccini ci stanno già aiutando ma lo faranno ancor di più in futuro, quando saranno a disposizione vaccini contro i ceppi resistenti.
Da recenti studi effettuati in Africa, per esempio, sappiamo che introdurre vaccini come quello contro il meningococco, raccomandato per le persone over 60-65 anni, significa diminuire l’incidenza di ceppi resistenti contro il meningococco.
Allo stesso modo, vaccinarsi contro l’influenza impedisce l’indebolimento del nostro sistema immunitario, causato dall’influenza, e il conseguente ricorso indiscriminato agli antibiotici.
La riduzione delle vaccinazioni, registrata lo scorso anno, ha fatto aumentare i decessi da influenza che, ricordiamolo, non sono decessi direttamente legati all’influenza ma alle infezioni batteriche non controllate.
Professore, a che punto è la ricerca?
Occorre inventare e scoprire nuovi antibiotici; sono passati ormai 30 anni da quando sono state introdotte le ultime classi di antibiotici. Abbiamo infine bisogno di ricerche sul nostro sistema immunitario che ci aiutino a identificare i pazienti a rischio e a individuare nuove armi immunitarie.
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