Volontari, medici di base, specialisti, chirurghi compongono la squadra che lavora per realizzare il progetto “Land of Hope” a favore delle popolazioni della località di Western Laikipia, nel Nord del Kenya. Ecco il racconto della nascita di un sogno che viene da lontano.
Negli anni sessanta e poi ancora negli anni settanta, chi intraprendeva un viaggio avventuroso nell’allora lontana Africa ricorda e riporta storie che solo i libri d’avventura raccontano. Le note mete turistiche come Malindi o Mombasa non erano neppure segnalate sugli atlanti di geografia, che però, sulla costa occidentale del Kenia, mai hanno dimenticato di menzionare Kilifi.
Kilifi è stata per anni, anzi per secoli, il porto più importante del Kenia, ovviamente per motivi di mero commercio. Il commercio degli schiavi. Anche Kilifi con il tempo è divenuta una località turistica e molti occidentali l’hanno potuta conoscere, amare e vivere. Chi vi è stato può raccontare di come sia forte, nel silenzio delle notti africane, il frastuono del vento che dall’oceano, travolgendo la baia, corre veloce fino a raggiungere i villaggi dell’entroterra. Quel grido costante, che riempie le tenebre, ricordando urla di dolore, è divenuto ormai il rumore del silenzio africano. Secondo una leggenda locale quelle urla sono il lamento delle anime degli schiavi deportati.
Oggi il colore nero e il colore bianco hanno imparato a riconoscersi vicendevolmente, ma non sempre la riconoscenza è reciproca e il rispetto scontato. Certamente l’uomo bianco non è più visto come un deportatore di schiavi, ma in quegli anni, che per le nuove generazioni rappresentano un periodo ormai lontano, l’arrivo di un bianco in un piccolo villaggio rurale africano significava ancora paura. Le porte delle case si chiudevano e la gente fuggiva per nascondersi. Oggi certamente l’uomo bianco non è più visto come un deportatore di schiavi, eppure esistono e si protraggono forme differenti di schiavitù, retaggio del colonialismo occidentale. Il popolo africano è spesso considerato come un popolo indolente, che si muove “in modo libero e naturale al ritmo imposto dal clima e dalla tradizione, un ritmo rallentato, che non conosce fretta: tanto nella vita non si può avere tutto, bisogna pur lasciare qualcosa anche agli altri” (Ryszard Kapuscinski). Un popolo che ama farsi accompagnare e assistere piuttosto che intraprendere un percorso autonomo.
Forse è proprio così… questione di differente cultura.
Gli africani intendono il tempo in modo completamente differente dagli europei. “Per loro si tratta di una categoria molto più flessibile, aperta, elastica, soggettiva. È l’uomo che influisce sulla forma, sul corso e sul ritmo del tempo. Il tempo è addirittura qualcosa che l’uomo può creare: infatti l’esistenza del tempo si manifesta attraverso gli eventi, e che un evento abbia luogo oppure no dipende dall’uomo. Tradotto in pratica, significa che se ci rechiamo in un villaggio dove nel pomeriggio deve tenersi una riunione e sul luogo stabilito non troviamo nessuno, non ha senso chiedere: quando comincia la riunione?. La risposta è risaputa: quando la gente sarà riunita. E’ per questo che, salendo in autobus, l’africano non chiede quando si parte. Sale, occupa un posto libero e sprofonda immediatamente nello stato in cui trascorre buona parte della propria vita: l’attesa passiva” (Ryszard Kapuscinski). Questione di differente cultura, ma il fascino di una cultura non consiste forse proprio nel saperla apprezzare e accettare per ciò che rappresenta senza pretendere di cambiarla secondo il proprio costume?
Non siamo antropologi né sociologi… solo persone che amano viaggiare, conoscere e condividere, che cercano di imparare a guardare il mondo con spirito critico. Viaggiando per l’Africa si apprezzano profumi e colori meravigliosi, ci si confronta con il fascino di un popolo straordinario. Un quadro dipinto con tratti decisi e zone d’ombra, che (per noi!) trascendono in lati oscuri. Ma anche questi aspetti culturali meno chiari, che gli ancoraggi mentali della cultura occidentale non sempre riesce proprio ad accettare, possono rappresentare possibili punti di luce. Dall’incontro del bianco con questi colori, anzi di un’italianissima donna bianca, Kuki Gallmann, originano le sfumature dei sogni, che “possono cambiare la vita e, infine, il mondo” (Fatima Mernissi)… così è nata Land of Hope!
Land of Hope non è solamente un progetto umanitario! Land of Hope non ha come missione il solo e semplice sostentamento della gente indigente, che vive nel Nord del Kenya. Land of Hope ha un cuore e soprattutto una visione! Realizzare una comunità autosufficiente, capace di emanciparsi attraverso l’istruzione; di aggregarsi attraverso l’attività sportiva; di sostenersi attraverso il lavoro e quindi di proiettarsi verso l’esterno per condividere questa esperienza con altra gente e concorrere nel migliorare le prospettive delle nuove generazioni africane.
A cura della Redazione
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