I macrofagi sono tra le cellule tipicamente impegnate nella risposta immunitaria innata, il nostro apparato difensivo primario, eppure, possono essere “corrotti” e diventare ottimi alleati del tumore.
“Quando il corpo deve fare fronte all’attacco di un batterio, penetrato magari attraverso una ferita”, racconta Paola Allavena, ricercatrice di Humanitas che insieme al suo gruppo studia da tempo questi meccanismi, “sul sito di infezione arrivano macrofagi che provvedono a eliminare gli invasori. Si tratta di cellule del tipo M1. Successivamente interviene un’altra classe di macrofagi, chiamata M2 che interrompe l’azione degli M1, provvede a ‘ripulire’ la zona eliminando i detriti rimasti e produce importanti fattori per riparare e ricostruire il tessuto danneggiato, per fare in modo che torni ad essere vascolarizzato correttamente. Ed è proprio questa peculiarità che viene utilizzata dal tumore”.
Non a caso, nella comunità scientifica, c’è chi definisce il cancro come “una ferita sempre aperta”, in grado di richiamare sul posto cellule specializzate, che invece di riparare i danni, contribuiscono a nutrirlo, come chiarisce Paola Allavena: “Le cellule neoplastiche impiegano fattori chemiotattici, i segnali chimici impiegati per richiamare le cellule coinvolte nell’infiammazione, per attirare sul posto i macrofagi, nella versione a loro più funzionale agli scopi del tumore. Gli M2, infatti, costruiscono l’ambiente adatto per farlo proliferare, vascolarizzando il tessuto e rimodellando lo spazio circostante per permettergli di crescere”.
Compreso questo meccanismo, la sfida per gli scienziati si è concentrata sull’individuazione delle strategie migliori per bloccarlo. “Ridurre la capacità dei tumori di reclutare e ‘corrompere’ i macrofagi potrebbe essere un interessante soluzione terapeutica”, aggiunge Paola Allavena, “ad esempio per contenere la possibilità di crescita delle micrometastasi, dopo la rimozione chirurgica di una massa tumorale. Sono attualmente in fase di studio farmaci che hanno mostrato di avere un’azione tossica nei confronti dei macrofagi. Uno di questi, il trabectedin, è oggetto di una nostra ricerca, in collaborazione con l’Istituto Mario Negri. Si tratta di una molecola già impiegata come antitumorale che si è rivelata in grado di bloccare l’azione dei macrofagi. Inoltre inibisce la produzione di certe citochine infiammatorie, che potrebbero essere coinvolte nel meccanismo”.
Sostanzialmente l’idea dei ricercatori è quella di “tagliare le linee di rifornimento” del tumore e di “prenderlo per fame”. Una soluzione che, però necessita di un lungo percorso di ricerca e di test clinici. “Prima di utilizzare una terapia di questo tipo dobbiamo essere sicuri di non limitare in generale l’opera dei macrofagi, indebolendo la risposta del sistema immunitario. Per questo dobbiamo comprendere se è possibile trovare un punto di equilibrio tra gli effetti terapeutici positivi e un indebolimento contenuto del nostro sistema difensivo oppure, ancora meglio, ottenere un’azione selettiva del farmaco, oppure. Se si riuscisse poi a ridurre selettivamente l’attività dei macrofagi M2, che bloccano l’attività degli M1, si potrebbe addirittura risollevare la risposta dell’organismo contro le cellule neoplastiche”.
Di Carlo Falciola
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